Aridatece er puzzone? Riflessioni politiche di fine anno

di Angelo d’Orsi (tratto da MicroMega)

Nella Roma appena liberata dalla presenza nazifascista (siamo nel giugno del 1944), superati i primi salutari entusiasmi, davanti a fenomeni di opportunismo, e a manifestazioni di incongruenza tra le forze politiche dell’arco ciellenistico, qualcuno lanciò, a mo’ di battuta, la frase “Aridatece er puzzone!”. Era un’esclamazione paradossale, una scherzosa provocazione, ma divenne presto quasi un motto che esprimeva lo scontento nei riguardi di una liberazione che liberava poco, e dava voce alla delusione popolare, che si traduceva in una sorta di rimpianto di chi era stato appena defenestrato: “er puzzone”, cioè il duce, alias Benito Mussolini. Era uno sberleffo, uno schiaffo alla riconquistata democrazia, uno sfogo sgangherato, con una punta di qualunquismo, se vogliamo, ma genuino e ingenuo, che, tuttavia, nella sua forma provocatoria, era una richiesta di ascolto che dal popolo giungeva al ceto politico.

Sul finire dell’anno di grazia 2018, la frase è tornata più volte alla mente del (vecchio) osservatore del tempo presente. E come in un eterno apologo, la tentazione affiora, e spinge a esercitare la rischiosa arte dell’analogia storica. Stabilire una periodizzazione condivisibile, non è facile, ma ci si può provare, risalendo agli anni Ottanta del secolo XX, quando in Italia regnava come un dio sull’universo, il “Caf”, all’interno di un quadro sovranazionale dominato da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher.

Fu un decennio terribile che vide un arretramento complessivo dello Stato sociale, una perdita grave sul piano dei diritti e delle condizioni di vita dei ceti subalterni, con una Italia preda di una corruzione generalizzata, e i partiti politici divenuti simbolo oltre che strumento di quella sistematica occupazione dei gangli dello Stato e della società, che un inascoltato Enrico Berlinguer denunciò non troppo tempo prima di morire, prematuramente, inaspettatamente.

La nascita della Lega Nord-Padania, e l’ascesa repentina di Silvio Berlusconi, tra il 1989 e il 1994, con il suo “partito di plastica” (come fu chiamato da qualche politologo), succursale politica di Mediaset, in una incredibile, travolgente avanzata di una destra feroce, quanto incompetente, non tardò a suscitare forme di rimpianto dell’era precedente, in cui, in fondo, erano al potere democristiani e socialisti, ossia figure note della scena politica, da cui sapevi cosa aspettarti: corruzione, clientelismo, come corrispettivo di un assistenzialismo, in cui il cattolicesimo la faceva da padrone.

Insomma, davanti alla volgarità berlusconiana, e alla commistione fra interessi privati e interessi pubblici, con il rapido sopravanzare dei primi sui secondi, alla trasformazione delle sedi istituzionali in bordelli eleganti, la nostalgia dilagò. Il beffardo “non moriremo democristiani” si rovesciò in un “era meglio morire democristiani”. Perciò, quando, nel novembre del 2011, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, liquidò “il cavaliere”, quel semi-golpe venne approvato a furor di popolo. Un’autentica euforia accompagnò quelle giornate convulse: pareva la liberazione dell’Italia dai tedeschi, appunto.

A sostituire Berlusconi fu chiamato, con procedura a dir poco bislacca, un “bocconiano”, l’algido professor Mario Montiipso facto insignito di laticlavio senatoriale, il quale, con stile ragionieristico si pose a rivedere i conti finanziari della malconcia Italia, in una collaborazione coordinata e continuativa con i famosi “gnomi” di Francoforte e i “burocrati” di Bruxelles, la luna di miele fu presto dimenticata, e il nuovo premier Monti e larga parte della sua “squadra di governo” (in particolare la sua sodale Fornero, che usò l’accetta per “rivedere” il sistema pensionistico, attirandosi gli odi della quasi totalità del popolo italiano), furono più odiati di quanto non fosse Berlusconi e la sua corte. In sostanza, una volta rivelatasi la natura ferocemente antipopolare del “governo tecnico”, mandatario dei poteri forti dell’UE, si cominciò a mormorare che “si stava meglio quando si stava peggio…”, e che in fondo “almeno Berlusconi era simpatico… raccontava le barzellette”; e non pochi si spinsero a commentare che regalava al “popolino” il sogno di essere come lui, con l’ostentazione cafonesca della sua ricchezza e della sua depravazione… E, dulcis in fundo, “il Berlusca” forniva uno straordinario, ricchissimo materiale a vignettisti, scrittori e attori satirici, e allo ius murmurandi popolare, con le sue infinite gaffe e le sue donnine procaci quanto disponibili…, naturalmente purché si fosse in grado di staccare assegni a quattro zeri, e procurare come minimo una parte in commedia, ossia una “particina” in una serie tv o una conduzione di un talk show. Tutto ciò che fino al momento della defenestrazione era apparso sordido, d’improvviso fu visto in fondo come ludico e gioioso, davanti alla ferrea volontà di “tagli”, che veniva giudicata come una scientifica pratica di “macelleria sociale”.

Dopo elezioni che in realtà bloccarono il Paese, producendo governi di compromesso, l’ectoplasmatico Enrico Letta sembrò annunciare una condizione depressiva di massa, in un ministero senza sostanza e senza mordente: l’arrivo al governo del “traditore” Matteo Renzi, pur suscitando qualche borbottio dei soliti “moralisti” e le critiche dei “parrucconi” e dei “professoroni” che “gufano per mestiere”, in fondo fu accolto con attenzione. Era il populismo giovanilistico al potere, e buona parte dell’Italia si sentì quasi rianimata, persino a prescindere dalle preferenze politiche.

Dopo il micidiale uno-due Monti-Letta, insomma, un’ondata di ottimismo giovanilistico, di neofuturismo in politica. Era, mutatis mutandis, in qualche modo, un ritorno al berlusconismo, tanto che si creò subito il neologismo “Renzusconi”. Nel corso dei mesi, all’iniziale simpatia (di una parte soltanto, della popolazione in età di voto, tradottasi in consenso elettorale, alle Europee) per quel giovanissimo capo di governo, smart e speedy, efficace comunicatore, un vero piazzista commerciale, seguì abbastanza presto il disincanto, davanti a promesse non mantenute, e alla presuntuosa arroganza di quel ragazzotto di provincia; giunse quindi il distacco, come una serie di appuntamenti elettorali mostrarono impietosamente. E il ritornello del “puzzone” si riaffacciò sulle bocche di italiani e italiane. Renzi, in fondo, fu visto come un piccolo Berlusconi, un “berluschino”: una modesta imitazione dell’originale. Tanto valeva tenersi l’originale, che, complice il trascorrere degli anni e una esistenza condotta non proprio da monaco cenobita, appariva inoffensivo e alla fin dei conti, quasi simpatico…

Perciò, la rovinosa caduta di Renzi con il referendum del 4 dicembre 2016, suscitò una subitanea ondata di gioia contagiosa nelle piazze e nelle case: anche chi non aveva vissuto il 25 aprile del ’45 e il 2 giugno del ’46, sentì vibrare le corde di un ritrovato e rinnovato patriottismo, che era il patriottismo della Costituzione. Seguì la profonda disillusione con il successivo governo Gentiloni: altro stile, senz’altro, felpato, all’insegna del profilo basso, profondamente, intimamente democristiano; la disillusione nasceva dal fatto che quel governo fosse quasi una fotocopia di quello, ormai resosi odioso, di Matteo Renzi.

E fu quella una delle cause più rilevanti della disfatta del loro partito, nella successiva competizione elettorale, e l’arrivo al potere di una strana alleanza, tra due movimenti populisti assai diversi tra loro, che dopo una trattativa durata quasi tre mesi (un primato nella storia del Paese), stilarono un cosiddetto “patto di governo”, inventando una figura extracostituzionale, un “avvocato del popolo”, estraneo a qualsiasi ambiente politico-intellettuale, al quale veniva affidato il ruolo di presidente del Consiglio pro forma, mentre le funzioni di comando rimanevano saldamente nelle mani dei due leader politici, Luigi Di Maio e, soprattutto, di Matteo Salvini che trasformava il ruolo di ministro dell’Interno in ministro di Polizia, mostrando come la lotta contro il referendum costituzionale del 2016, per la forza politica da lui rappresentata, aveva un valore meramente strumentale. Le offese alla Costituzione e alla prassi istituzionale, divennero rapidamente una costante del nuovo governo, diretto da quell’inusuale trio, dove i due vicepresidenti erano in intimo contrasto, affidatari di interessi sociali e di bacini elettorali diversi, mentre il loro sedicente “capo”, politicamente inesistente, appariva un esempio preclaro di inettitudine e goffaggine. Ma i tre erano uniti soprattutto da un’arroganza fenomenale, che tentava, inutilmente, di coprire l’inesperienza e l’inadeguatezza all’esercizio dell’arte di governo. Arroganza che faceva impallidire nella memoria quella di Matteo Renzi.
Precisamente la somma tra ignoranza e arroganza, da un canto, e dall’altro l’annunciata e quotidianamente ribadita intenzione di essere il “governo del cambiamento”, suscitava una cospicua opposizione, che, sia pur probabilmente minoritaria in termini elettorali, appariva in crescita, davanti a una serie di provvedimenti che al consenso di routine dei sostenitori delle due forze politiche al governo, aveva come contraltare un dissenso forte e diffuso a livello sociale e intellettuale prima che politico.

Ed ecco appunto che dopo il craxismo, il berlusconismo, il post-berlusconismo, il renzismo e il post-renzismo, anche il grillismo in combutta con il leghismo, suscitando disgusto, facevano riecheggiare il motto: “aridatece er puzzone!”.

Ebbene tutti questi governi e questi capi politici succedutisi nel tempo, sono caratterizzati da un populismo di varia natura, con diversa caratterizzazione e diverse modalità, talora schiettamente caratterizzato a destra, talaltra, pretendendo di andare oltre la distinzione destra/sinistra (presentata, ingannevolmente, come “superata”), in nome dell’esaltazione del “popolo” non meglio definito, mitica entità nella quale si raggrumano tutte le virtù, vi si richiamava come fonte di legittimazione del potere, un potere che in fondo sarebbe aideologico. In realtà si trattava di una posizione che definiva un deciso allontanamento dai valori storici della sinistra, non a caso (vedi Renzi) sostituendo a quella locuzione politica, l’altra, di dubbia forza teorica, di “centrosinistra”. 

Quel medesimo popolo, peraltro, sembra di labile memoria, e di volatile consenso: alla caduta dei potenti, che fino al giorno prima avevano parlato in suo nome, le statue vengono profanate, gli idoli infranti, l’esaltazione dei seguaci si rovescia in denigrazione, e la vox populi si esprime in un conclamato rimpianto dei predecessori: “A ridatece er puzzone!”, insomma. Chi di popolo ferisce, di popolo perisce. Aspettando il seguito, in questa mesta fenomenologia di fine anno, della nostra “serva Italia / di dolore ostello/ non donna di provincie/ ma bordello”.

Concludo così, dunque? Nessuna speranza? Premesso che condivido le accorate parole del grande Mario Monicelli sulla speranza “trappola inventata dai padroni… una cosa infame inventata da chi comanda”, non possiamo accontentarci della ricostruzione fattuale, in tempi difficili come i presenti, e neppure della denuncia: due elementi fondamentali, ma occorre partire da essi, per lavorare in prospettiva. Il “Che fare?” si affaccia prepotente. Non si può lasciare il contrasto al populismo becero di questo governo al PD (che dopo anni di governo pare scoprire adesso, dall’opposizione, cosa sia meglio per il Paese) e a Forza Italia (su cui neppure vale la pena di spendere pensieri). E i piccoli gesti provenienti dai rimasugli della sinistra in Parlamento, sono poca cosa, anche se non disprezzabili nelle attuali circostanze. Il discorso sarà da riprendere, al più presto anche in vista degli appuntamenti elettorali, rispetto ai quali bisognerà pur dare una risposta: partecipare, come, con quali alleanze, con quali referenti sociali? 
Intanto, però, occorre, credo, innanzi tutto dar vita a una diffusa, quotidiana opposizione sociale, prima ancora che politica, su fisco, infrastrutture, pensioni, sanità, istruzione, informazione, cultura, migranti: su tutto quanto incide sulla quotidianità di quel popolo di cui costoro si presentano come rappresentanti autentici e benefattori. 
Occorre in secondo luogo smontare la narrazione tanto di chi, dal governo, in modo mendace si propone come interprete della volontà popolare, e crea nuove pesanti ingiustizie, e aumenta l’inefficienza della macchina pubblica, quanto di chi, sul fronte opposto, non ha di meglio da argomentare che la litania dell’Europa, dei mercati, dello spread.

Non accettiamo la morale dell’“Aridatece”, perché si tratta di un gioco al ribasso, e i “puzzoni” sono equivalenti, sia pure nella loro diversità. Non facciamoci fregare dalla speranza, certo, ma neppure dalla nostalgia. La sola nostalgia che ci deve essere consentita è quella del futuro.